3 marzo 2023
Galassie impossibili scoperte dal James Webb, astrofisico Masi: “Momento prezioso per la conoscenza”
L’avveniristico Telescopio Spaziale James Webb ha catturato le immagini di galassie primordiali (candidate) troppo grandi per essere spiegate dagli attuali modelli cosmologici. Fanpage.it ha intervistato l’astrofisico Gianluca Masi per commentare la suggestiva scoperta.
Intervista a Dott. Gianluca Masi
Astrofisico, responsabile scientifico del Virtual Telescope Project e curatore del Planetario di Roma
A cura di Andrea Centini
A sinistra le galassie “impossibili”. Credit: Credit: NASA, ESA, CSA, I.Labbe/Swinburne University of Technology. A destra l’astrofisico Gianluca Masi. Credit: Gianluca Masi / Facebook
Nei giorni scorsi un team di ricerca internazionale guidato da scienziati australiani dell’Università della Tecnologia Swinburne di Melbourne ha presentato i risultati di una ricerca potenzialmente rivoluzionaria, effettuata grazie all’avveniristico Telescopio Spaziale James Webb. Gli studiosi, infatti, analizzando le immagini di campo profondo catturate dallo strumento hanno identificato enormi galassie (candidate) primordiali che non possono essere spiegate con gli attuali modelli cosmologici. Ciò è dovuto al fatto che hanno un’età stimata superiore ai 12 miliardi di anni e una massa gigantesca. In parole semplici, secondo le teorie attuali più accreditate non avrebbero avuto il tempo necessario per diventare così grandi. Dunque, come hanno fatto ad accumulare così tanta materia in così poco tempo? Questo affascinante mistero cosmologico, che ribadiamo essere basato solo su dati preliminari, ci dice non solo che sappiamo ancora molto poco sull’Universo che ci circonda, ma conferma anche che il James Webb è uno strumento davvero eccezionale, in grado di aprire nuovi importanti interrogativi scientifici. Per saperne di più su questa emozionante scoperta abbiamo contattato l’astrofisico Gianluca Masi, responsabile scientifico del Virtual Telescope Project e curatore del Planetario di Roma. Ecco cosa ci ha raccontato.
Dottor Masi, innanzitutto le chiediamo qual è il primo commento che si sente di fare innanzi a una scoperta di questa portata
Il primo commento che mi sento di fare in relazione a questo risultato, che è stato annunciato di recente da questo gruppo capitanato da un ricercatore di una università australiana, è che dimostra quanto sia valsa la pena mettere in orbita il Telescopio Spaziale James Webb. Come viene sottolineato dagli autori dello studio, sono proprio le caratteristiche che il James Webb sfoggia ad aver permesso queste osservazioni. In primo luogo aver scelto di coprire con questo telescopio il medio infrarosso. Quindi una radiazione che è oltre il rosso rispetto alla luce visibile, cui è sensibile il nostro occhio per natura. Perché per come funziona a grande scala l’Universo, la radiazione lontana ed estremamente lontana scivola dalle lunghezze d’onda originarie – magari all’interno della luce visibile – e sconfina verso il rosso e oltre (il famoso redshift, lo spostamento verso il rosso, appunto). Avere un telescopio che per scelta tecnologica è utilizzato su quelle lunghezze d’onda corrisponde ad avere una retina davvero specializzata per questo tipo di osservazioni.
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Quindi, come si dice, permette realmente di guardare più indietro nel tempo e più lontano di qualunque altro strumento
Certamente. È assolutamente vero. Premesso che l’infrarosso ha senso anche vicino; lo dimostra la capacità importante del James Webb anche nell’indagine delle atmosfere degli esopianeti. Per ragioni diverse l’infrarosso è una scelta tecnologica e scientifica veramente importante. Ma qui, visto che parliamo di osservazioni condotte quasi al limite dello spazio accessibile, direi, il vantaggio è di natura cosmologica. Perché noi osservando così indietro nel tempo, salendo a ritroso verso l’infanzia dell’Universo, dobbiamo necessariamente cercare la radiazione via via sempre più nel rosso e appunto nell’infrarosso. Questo strumento ha permesso di osservare delle strutture in quella specifica lunghezza d’onda, quindi nel medio infrarosso, attraverso la camera MIRI. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Nature, una delle più prestigiose quando si tratta di condividere con la comunità risultati francamente di rango, di grande livello. L’idea è che quello che è stato osservato, grazie a osservazioni prima impossibili perché non avevamo rilevatori così specializzati, potrebbero essere galassie, galassie davvero primordiali, perché la loro collocazione all’interno della struttura dell’Universo ci dice che risalgono a una fase in cui non aveva nemmeno 1 miliardo di anni. Sono galassie estremamente primordiali, ovvero espressioni di un Universo giovanissimo, la cui stima di massa – ovvero della quantità di materia che le compone, che è stata calcolata con grande perizia da questi astronomi – le colloca a valori inattesi, perché molto più grandi di quelli che ci si aspettava dovessero avere galassie in quell’era così primordiale. Questo è il cuore di questa ricerca.
In un comunicato stampa gli autori dello studio hanno dichiarato che avrebbero persino più massa di quella stimata per l’intero Universo di quel periodo
Questo dettaglio mi è sfuggito, però le cifre che ho letto sui vari report che sono stati fatti sono eclatanti. Parliamo davvero di numeri che ad oggi sono difficili da giustificare rispetto a quelle che chiamiamo le “regole del gioco” dell’Universo, così come state raffinate nel corso degli ultimi modelli cosmologici. Che appunto evidentemente non prevedevano galassie primordiali – sottolineo primordiale perché parliamo di oggetti remoti nel tempo, quindi a ridosso dell’infanzia del cosmo – di questa entità. C’è da dire che se questa osservazione si configura in questo modo, ovvero sottopone alla nostra attenzione galassie candidate a rivendicare questi numeri, come sottolineano gli stessi autori dello studio è necessario provvedere con osservazioni complementari, che possano eventualmente rafforzare questa ipotesi. Magari possono anche esserci altre letture di questi dati che potrebbero convergere non dico in una direzione meno esotica, ma magari in una diversa e parimenti rivoluzionaria.
Secondo i ricercatori potrebbe trattarsi anche di peculiari buchi neri supermassicci, di un tipo mai visto prima. Ma questo non cambierebbe molto il risultato. Anche in questo caso andrebbe spiegato come sia finita lì tutta quella massa
Gli autori dello studio nel mettere a punto una spiegazione a quello che hanno osservato, come è prassi per chi fa scienza, hanno proposto la possibilità che si tratti di galassie con massa inattesa, per quanto grande. Allo stesso tempo però sono consapevoli che possono esserci delle spiegazioni alternative, e quando loro accennano a questa tipologia di buchi neri supermassicci sottolineano che si tratterebbe di una spiegazione parimenti interessante dal punto di vista scientifico. Perché anche questo rappresenterebbe una straordinaria novità. Qui stiamo davvero entrando in maniera convinta, grazie alle capacità di questo strumento, in campi, aree e regioni dello spazio-tempo del tutto inediti. C’è sempre la grande probabilità di raccogliere delle cose straordinarie. In base ai dati disponibili chi ha condotto questo studio ha proposto questo modello, ma sono convinto che qualora dovesse essere giustificato in modo diverso secondo me non si dispiacerebbe nemmeno. Come la mettiamo la mettiamo, sono osservazioni del tutto nuove e impongono approfondimenti e certamente anche ulteriori studi.
Qual è l’aspetto più significativo di questa ricerca?
Qui la cosa importante è che noi stiamo osservando con una capacità di raccolta dati – e dunque di informazioni – senza precedenti, in regioni di spazio così estreme che è come arrivare con lo sguardo laggiù con questo potenziale per la prima volta. Intanto prendiamo atto del fatto che il James Webb ha permesso questo studio grazie a immagini che sono state ottenute quasi all’indomani della prima luce che ha entusiasmato il mondo. Perché queste riprese risalgono a luglio dell’anno scorso (poco dopo l’entrata in attività scientifica NDR). Quindi mentre noi godevano nel vedere quelle delizie, era già in corso in maniera così energica anche tutto il filone scientifico, i cui risultati sono stati estratti proprio da immagini di quelle settimane. Ancor prima di trovare una conferma o una lettura alternativa a questi risultati, sottolinea cosa significa finalmente studiare l’Universo con questa efficacia di raccolta dati, evidentemente senza precedenti dal punto di vista strumentale. La sensazione che mi dà un risultato come questo, da consolidare con una interpretazione definitiva, è che siamo un po’ in quella condizione in cui nel ‘500 i grandi navigatori, spingendosi oltre la linea segnata dall’ultimo avventuroso navigante prima di loro, aggiungevano un pezzo di cose mai viste. Qui siamo veramente tornati, metaforicamente parlando, a una situazione del genere. Un po’ lo è sempre stato, perché l’Universo è così vasto che è sempre pronto anche a distanze ravvicinate a proporre eventi, vicende e fenomeni che ti costringono a rivedere certe cose. Però qui abbiamo proprio un cambio di passo. Abbiamo davvero uno strumento che realmente permette per la prima volta cose impossibili fino all’anno scorso.
Insomma, una vera rivoluzione
Sì, sì. Benvenuto. Quando James Webb lustri e lustri or sono era ancora un sogno, ancora un progetto lontano dal trasformarsi in realtà, la comunità astronomica a ragione lo sosteneva. Perché è uno strumento complementare ad Hubble. Hubble ha delle prerogative, ha delle caratteristiche e non smetteremo mai di ringraziarlo per quello che ha fatto e quello che sta facendo. Intanto ha riscritto il nostro immaginario dell’Universo. Persone che nulla hanno a che fare con la scienza del cielo hanno i capolavori di Hubble come sfondo sul desktop del proprio computer, telefonino, tablet e via discorrendo. E qui però James Webb non è ridondante. Il ragionamento che da sempre ha fatto la comunità astronomica a sostegno del progetto è che non era una ridondanza, come talvolta mi capita di sentire da parte del pubblico. È proprio una complementarità e soprattutto, onestamente, affonda negli abissi dello spazio e del tempo primordiali con una facilità per quelle scelte di cui dicevamo che nessun altro strumento, nemmeno Hubble, può permettersi.
Uno degli scopritori delle galassie primordiali ha detto che se i risultati saranno confermati, potrebbe essere trasformato “il modo in cui diamo un senso alle cose che ci circondano”. Cosa voleva dire esattamente? Al di là del potenziale aggiornamento dei modelli cosmologici
Come tutte le osservazioni che innescano riflessioni profonde a seguito di risultati importanti e anche provocatori, con dati che convergono verso risultati che evidentemente non si accordano con le regole del gioco attuali, creano uno scossone, una certa discontinuità. Ma allo stesso tempo io dico sempre che occorre anche una certa prudenza. Ma non perché voglio sminuire, ci mancherebbe altro. Perché comunque quando le osservazioni scuotono un edificio consolidato è un momento prezioso per la conoscenza da parte dell’uomo. Ovviamente qui io aspetterei prima di entrare nel merito di ragionamenti sulla necessità di revisioni di modelli cosmologici comunque affidabili, che sanno comunque spiegare molte delle cose dell’Universo visivo che ci circonda. Però, dal mio punto di vista, il cambiamento, ancor prima che una revisione eventuale di un modello, è già anche ricordare a se stessi e fare propria la consapevolezza che la scienza non ha certezze assolute. Intese come un modello che siccome ha funzionato per 50 anni non è perfezionabile, non può avere un’accordatura migliore. No. Questo è un messaggio che secondo me forse forse è più importante del contenuto scientifico della notizia. Ovvero il fatto che la scienza è pronta ad accogliere a fare sempre buon uso dei risultati, delle novità che è in grado di raccogliere grazie ai nuovi strumenti. Ed è la ragione per cui li facciamo questi strumenti. Altrimenti, se l’apparato della scienza dell’Universo costruito finora fosse solido, che senso avrebbe sforzarsi nell’escogitare nuovi esperimenti e nuovi strumenti? È proprio questo il senso. Sono strumenti che nel caso servono a consolidare o, ancora nel caso, a migliorare proprio quelle regole. Dal mio punto di vista una conseguenza fondamentale, la definirei quasi filosofica. Proprio perché, ripeto, questo risultato ci ricorda come funziona la scienza. La scienza si guarda intorno, realizza l’esistenza di un fenomeno, di un corpo celeste in questo caso, tenta di decifrarlo e giustificarlo, quello che ottiene sembra in contraddizione con il percorso, il modello dentro il quale quell’oggetto dovrebbe esistere, magari stridono le due cose e si cerca di comprendere il perché. Se ne riesce sempre migliorati. Capita talvolta che vince il modello, ovvero la lettura che avevo dato, che sembrava anomala, in realtà era frutto di un mio errore di valutazione e tutto rientra nelle regole del gioco precedenti, oppure semplicemente sono invitato a raffinarle. È così che vanno le cose. Per me è proprio il sale di tutto il ragionamento, sinceramente.
Mettiamo che queste galassie anomale esistano davvero. Come potrebbero essersi formate in così breve tempo, entro il 3% dell’età dell’Universo?
Giustificare l’esistenza di questi oggetti è proprio la sfida. Qualora venisse fuori che per davvero quelle galassie mettono alle corde il modello Lambda-CDM model, come viene chiamato, il problema starebbe proprio lì. Capirlo. Quindi si tratterà di dimostrare l’esistenza di questi corpi celesti magari integrando e migliorando le regole del gioco. Amo definirle così, mi piace proprio immaginare che siamo su un campo dove si svolge un gioco, che è quello della conoscenza scientifica, basato su certe regole che si evolvono nel tempo. Man mano che la nostra comprensione aumenta le raffiniamo. Se dovesse sul serio confermarsi tutto questo, si andrà ad aggiungere, integrare e migliore qualcosa che tuttavia dovrà continuare a giustificare come fa già oggi tutto il resto. Perché non è che noi brancoliamo esattamente nel buio. Ovvero, sappiamo che ciò che conosciamo, ciò che sappiamo spiegare, è figlio del nostro tempo e che il futuro ci darà punti di vista più ricchi per meglio comprendere le cose. Ma fortunatamente abbiamo dalla nostra quelle regole del gioco che sono comunque una buona sicurezza. Ce le portiamo appresso anche a quelle distanze perché ci permettono di decifrare molti dei fenomeni cosmologici. Quindi hanno un senso. Se poi, come potrebbe essere questo il caso, dobbiamo perfezionarle, raffinarle, ben venga. Torno a dirlo, è una vittoria. Questo è importante. Significa che ha avuto senso investire in uno strumento come quello, ma stupisce ancora di più chi lo ha immaginato quello strumento. Perché nell’immaginarlo stava guardando nella direzione giusta, intuendo che quello strumento avrebbe dato accesso ad ambiti, corpi celesti, distanze e luoghi dell’Universo che avrebbero permesso di aggiungere alla conoscenza. Io sono ossessionato dall’idea che si colga sempre questo elemento. Ci sono anche grandi scoperte frutto del caso, la fortuna aiuta gli audaci, per carità. Queste osservazioni di grande portata, quale che sarà l’esito interpretativo finale, derivano dall’aver allestito uno strumento che è ottimale per quel tipo di osservazioni. Questo è un dato di fatto assolutamente incontrovertibile.
Per avere le conferme sperate, le osservazioni di follow-up dovranno comunque essere condotte con lo stesso strumento
Assolutamente. James Webb è capace di ottenere spettroscopie di altissima qualità. Un’altra delle sue caratteristiche che rendono veramente prezioso questo strumento è che possiede 17 modalità operative. A seconda di ciò che si vuole osservare possono essere adoperate. È veramente multifunzione. È uno strumento di una flessibilità di cui a memoria non mi viene in mente un analogo. E voglio anche sottolineare un altro aspetto. Noi parliamo di uno strumento che si trova a 1 milione e mezzo di chilometri da qui, quindi tutto quello che fa, e anche questa grande flessibilità strumentale, deriva dall’aver allestito con grande perizia e capacità ingegneristica una macchina complicata. Che, incrociamo le dita, funzionerà per un certo numero di lustri. Uno strumento così, completo, con così tanti modi operativi su diversi strumenti opera in assoluta autonomia. Intendo dire, sì, siamo noi a chiedergli cosa fare, ma non c’è nessuno visto che si trova nello spazio ad operare sul posto. Anche ad aver immaginato questo, una rosa di possibilità operative tra loro complementari che posso essere tirate in ballo per dare man forte a un’osservazione compiuta con un altro strumento a bordo, con un’altra modalità operativa, si riallaccia a quanto dicevamo prima, cioè alla straordinaria visione di chi strumenti e progetti come James Webb ha immaginato e immagina. Il James Webb stesso dovrà fare il follow-up.
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